Polo Confortini, Verona 2014
di Marifulvia Matteazzi Alberti
Per conoscerla e capirla bisogna andarla a incontrare nel suo studio e guardarla aggirarsi tra mensole, scaffali, banconi dove sono posizionate ordinatamente o alla rinfusa le innumerevoli Opere che lei cita, cerca, chiama quasi a raccolta quali creature che vivono di vita propria con le loro emozioni, i loro segreti, le angosce del tempo e della materia di cui sono composte. Solo allora si verrà catturati dall’amore e dalla necessità dell’Artista di rivolgersi alle cose più semplici, dal suo contagioso rapporto con la realtà. E’ particolarmente affascinante entrare in questo strano laboratorio dove Cazzadori si rifugia per dialogare con la carta, con la tela, con il colore, con il legno, con il ferro, con il fuoco per renderli protagonisti, ascoltando i richiami e i suggerimenti che essi stessi propongono. Niente viene al mondo per avere un solo destino, un significato, un’unica missione: anche il più piccolo frammento si modifica, evolve, conscio dell’incompletezza tende alla pienezza, vive l’inizio spinto verso la perfezione. Così come l’alchimista trasforma oggetti comuni in preziosi, Cazzadori usa materiali poveri, di scarto, e sotto la spinta di un gesto che smorza ogni tensione, con la pacatezza di un’azione misurata e lenta, riposiziona e trasforma in oro ideale: conserva, mette da parte con cura, colleziona con pazienza, fa rivivere imprimendo forza e vitalità ai materiali e li anima combinandoli insieme o isolandoli, bruciandoli e traendo da alcuni di loro l’essenza che solo il fuoco riesce a dare, dopo averli intaccati, tormentati, torturati con la forza del calore. Alla fine Cazzadori alita una potenzialità inaspettata sulle cose corrose da un passato che ritorna, raccontato e rivisto con gli occhi di chi sa evocare nel breve, infinito, spazio di un’Opera tutte le passioni, le speranze, le paure, vissute e rivelate dal lume del cuore, quasi come un atto d’amore. La sua è una ricerca fatta con tenacia, con l’ostinatezza dell’archeologo che ha intrapreso un viaggio tra le cose della memoria, che parla con l’accanimento silenzioso di chi è al di sopra di spazio e tempo. E’ quasi come voler costruire frammenti di storia che appagano, danno tranquillità, quiete all’ansia di indagine: la tela la carta il colore, il ferro il legno i chiodi, lo spago e la rete, giornali e riviste d’un tempo si misurano l’un l’altro, si adattano in un processo permanente di trasformazione, di evoluzione: accostati o sovrapposti come nugoli di pensieri, di strati che vivono uno sull’altro, abbandonati in un pacato decantare dal lento lavorio che si nutre di tutti i nostri ieri. Sono forme astratte ma anche naturali, remote ma anche attualissime. E’ un rivivere con la memoria, con la presa di coscienza di un cammino ritrovato attraverso le vie del sentimento: c’è un grande recupero di sacralità in ogni segno come impronta dell’uomo, della sua Storia sofferta nel succedersi delle stagioni, degli anni, delle generazioni, nell’eterno destino, che appare e scompare, di ogni vivere. Le materie si ritrovano nei pannelli come purificate da uno spazio giocato tra luce e terra: restano pagine di libri, di giornali, di lettere scritte con cura infinita, di vecchi pentagrammi come trasparenti pellicole, vive, vibranti, immerse nell’intimità di un silenzio carico di attese, sospeso tra ciò che siamo stati e un oggi moltiplicato tra presenze e assenze, casualità e invenzione, buio e luce, pieno e vuoto: è una pitto-scultura che diventa specchio dell’animo, strumento per raccontare le sconfitte come i sogni, e in più si fa carne viva composta di ossa e di sangue, di vene e di pelle come ognuno di noi. Sembra quasi che Cazzadori animi con il suo dipingere raffinato un’affascinante e commovente avventura, per far luce su tutto quello che il tempo tende a seppellire nell’oblio, rivelando al mondo l’eterno conflitto tra creazione e distruzione, tra bene e male, tra la vita e la morte, recuperando quel silenzio che consuma, quel raggio di luce che attraversa oggetti dimenticati, o solo accantonati, sfatti. Ogni Opera appare velata di fatica, di quella solitudine che guarda fiduciosa all’incontro di un’orma che solleva i ricordi di passate emozioni, di segni antichi, di quella crepa nascosta, custode inattesa: è pittura di riverberi, di sorprese affiorate quasi per riappropriarsi del divenire delle materie dal peso del destino dalle eterne domande, dal silenzio che aggiunge silenzio senza fine. E’ un cammino dentro il tempo a ritroso, navigando nei giorni della nostra esistenza, intessuta di ragioni e di rimpianti, di passioni e di dubbi, di speranze e di illusioni che la ragione scosta, mentre il cuore conserva.