di Paola Azzolini, L’Arena di Verona, 1996
Tele come muri scrostati, annerite, segnate dal rosso di incendi remoti, da solchi che fanno affiorare l’anima bianca sottesa; legni su cui il tempo ha lasciato la sua ruvida carezza, ferri divorati dalla lebbra del passato, superfici oscure su cui si aggrumano onde ruvide di magmi preistorici bagliori di fuoco che s’affacciano tra grigiori e baluginare bianco di pomice; ma anche carte che s’addensano in segreti rilievi, misteriose topografie sbiadite, dal biancore latteo più o meno intenso, come ” perla in bianca fronte ” : una materia varia che torna a parlare un suo arcano linguaggio. Le opere di quest’ultimo periodo di Maria Teresa Cazzadori, dialogano fittamente con i materiali, resuscitandoli nell’esplorarne le tracce, nell’individuarne i segni che affiorano da fondi remoti, da densità luminose che si ispessiscono in misteriose, indecifrabili, scritture. La materia, la tela, la carta, il legno o il ferro, si combinano con il segno, in un alfabeto primigenio e modernissimo; graffiti di una remota vicenda, interiore o esteriore, non conta. Certi legni corrosi , incisi, segnati dai nodi, dialogano con il ferro rugginoso di arnesi inservibili, evocando le tracce delle mani che li hanno lavorati e perduti, nel gorgo del tempo. Le tele giocano su colori non fondamentali, quali il bianco ed il nero, nelle loro infinite variazioni; ma questo universo, quasi monocromo, si manifesta, anche, come un oggetto tattile. Sono tavole e tele, non solo da vedere, ma da toccare; quasi un alfabeto braille, per rendere evidente la fisicità del rapporto con la pittura. Quello che importa non é la rappresentazione di qualcosa, ma l’autosufficienza del linguaggio in cui convivono segno e progetto. L’artista esibisce, infatti, la trama delle sue incisioni, il cammino del suo progresso creativo : ritmo e luce si svolgono nella sequenza del nero, sempre più nero, dei bianchi, dei grigi ed ancora dei bianchi, delle forme appena alluse e subito sprofondate nella tela, come nella terra di una sterminata pianura, dove sia appena terminata una cruenta battaglia. Come i muri scavati e corrosi di Tapies, i sacchi lacerati e bruciati di Burri, le fragili sculture dell’arte povera, le pitto-sculture di Mariateresa Cazzadori esprimono la storia di un conflitto indicibile tra noi ed il mondo che é intorno a noi. Il dramma di questo dialogo con la materia, confina col silenzio, con l’enigma; convoglia le emozioni che giacciono sotto la soglia del cosciente e le elabora nel dialogo con l’oggetto, con le resistenze dell’oggetto. La materia rinasce , non come materia inerte, bensì come memoria dell’oscurità che l’artista ha attraversato, per ritrovarla e ritrovarsi; e l’opera è il coagulo delle risultanze, fra intenzioni formali e resistenza, dell’attualità di ogni tipo di materiale adoperato. Diceva Fautrier che non si fa altro che reinventare ciò che è, restituire in sfumature emotive la realtà che é insita nella materia, nella forma, nel colore, quali risultati dell’effimero risolti in ciò che non muta più. La Cazzadori si sprofonda nel materiale che ha davanti cercando di coglierne il messaggio profondo. Inizia un dialogo che è un’avventura perché non sa dove porterà. Il suo é un furore freddo, che non ha nulla in comune con il segno emotivo ed allucinato dell’Action painting. Dalla necessità della ricerca inizia il suo sprofondamento nelle tenebre, nella sordità ottusa , senza tempo e senza spazio, della ” COSITA’ dell’essere. E’ come se, la materia sorda, il nero-bianco sotto le mani abili dell’artista, recuperasse una sua “memoria ” , che é memoria di relitti, di esistenze sepolte, bloccata nei segni, talvolta infinitesimi, nei grumi o nella piatta stesura del colore. Ma il dramma non si consuma in un informe mucchio di braci, nell’angoscia che schiaccia e sommerge il segno artistico. Il lirismo, esibito e sottile del lavoro dell’artista, redime, nella laboriosa ricerca del pennello, dell’incisione, dell’assemblaggio scultoreo, le tracce dell’antico naufragio.